Sono una donna fortunata perché dal minuto successivo a quello in cui mi sono laureata ho sempre lavorato nel settore per il quale ho studiato: l’architettura. Ho vissuto diverse esperienze e imparato da ciascuna, ho potuto fare delle scelte – prima fra tutte quella di cambiare lavoro quando non faceva più per me. Ho conosciuto tante persone, la maggior parte delle quali ha imparato a conoscermi e mi ha valutata sulla base delle mie competenze, mi ha rispettata ed aiutata a crescere e in alcuni casi – chissà – ha anche imparato qualcosa da me. Sono sempre stata pagata per il mio lavoro: dapprima poco, poi non molto, poi non c’è male.
Rileggendo quanto scritto, credo però di essere partita con il piede sbagliato, perché la fortuna qui non c’entra: questi sono risultati che ho raggiunto perché mi sono impegnata, perché mi sono messa in gioco, perché sono brava. La fortuna è altrove, è a monte: sono fortunata perché parto da una condizione di privilegio. Ho potuto studiare, ho una famiglia che mi ha sostenuta (all’inizio anche economicamente), sono caucasica, eterosessuale, cisgender, non ho disabilità, vivo nel ventunesimo secolo in un paese dell’Occidente del mondo, abito in una città non avara di opportunità, non sono madre. Sono fortune in senso circostanziale, spero non sia necessario spiegarlo.
Nonostante questa condizione di privilegio, mi è capitato e tutt’ora mi capita di vivere episodi in cui essere una donna che lavora nel campo dell’architettura e dell’edilizia – seppure fortunata – mi ha fatta sentire discriminata. Ve ne racconto alcuni a campione, per darvi un’idea. C’è chi penserà che sono piccole cose e su, su, non te ne devi lamentare. Io però voglio raccontarle perché non si pensi che sia normale e tollerabile che debbano capitare.

01_Non sono una signora
Parto con un piccolo grande classico: il ruolo non riconosciuto. Mi è successo di persona, al telefono, via mail: “Alla cortese attenzione dell’Architetto-nome-uomo e della Signora Marta Brambilla” in risposta ad una mail inviata da me, con firma e qualifica. Non può essere sempre solo un errore; può NON essere una scelta deliberata, ma deriva di certo da un costrutto mentale difficile da abbattere.
Un esempio: un fornitore che arriva in ufficio su mia richiesta; l’ho contattato per chiedergli di presentarsi per partecipare ad una gara d’appalto. Lo accogliamo in due, io e un mio collega. “Piacere, Architetto”, rivolto a lui. “E piacere… signora o signorina?”. Voi moltiplicatelo per le 10, 100, 1000 volte che questa situazione si ripresenta e poi chiedetevi perché fa tanto arrabbiare. Sono convinta che il titolo al femminile Architetta sia la chiave: time has come. Potete approfondire qui, qui e qui, o seguire il lavoro di RebelArchitette. E potete anche non essere d’accordo e non dirmelo.
02_Quando il fornitore non si rivolge a te
La storia si ripete: convoco un fornitore e lo accolgo insieme ad un mio collega (che partecipa perché interessato, ma il lavoro lo sto seguendo io). Sto studiando delle soluzioni per una facciata e devo convocare tre diversi fornitori per discutere della soluzione tecnica ed avere un’offerta economica: insomma, gli sto offrendo un potenziale lavoro. Conduco io l’incontro, spiego di cosa si tratta, che cosa stiamo cercando, quali sono le soluzioni ipotizzate. Dal momento in cui il fornitore inizia a parlare, si rivolge solo ed esclusivamente al mio collega. Resto calma e tento di recuperare la sua attenzione facendo delle osservazioni su quanto sta dicendo: breve contatto visivo con me e poi ritorna al mio collega. Così per tutto il tempo. Io che sono poco vendicativa mi rilasso e penso: “tu questo lavoro non lo avrai mai”. E mi immagino come Julia Roberts in Pretty Woman, piena di sacchetti e pacchi dopo lo shopping, mentre ritorno nella boutique dove non sono stata considerata: “You work on commission, right? Big mistake. Big. HUGE”. Il lavoro non lo ha avuto, ma oggi questo fornitore mi ha intestato l’abbonamento ad una rivista che tratta del “Costruire-nel-materiale-che-lui-vende“: mi arriva ogni tre mesi.
03_Sopralluoghi in cantiere
Il cantiere è un mondo in cui capita che ci voglia impegno per farsi prendere sul serio e farsi ascoltare e spesso questo non dipende dal nostro atteggiamento, ma da quello di chi ci si trova di fronte. Se è maschio e over 55 (e l’ambiente in cui lavoro ne è pieno), sale la percentuale di probabilità che abbia bisogno di più tempo per capire che sei tu la persona con la quale dovrà avere a che fare. Mi spiace generalizzare – non tutte le persone fortunatamente sono uguali – ma sulla base della mia esperienza è una statistica valida.
Il primo giorno nel mio primo cantiere il mio capo (direttore dei lavori) era in ritardo. Io ero donna, giovane, con poca esperienza, ma conoscevo quell’edificio mattone per mattone, dato che mi ero occupata del progetto fin dal giorno zero. In quel primo giorno dovevamo incontrare una (celebre) impresa che avrebbe partecipato all’appalto e, dato che il direttore dei lavori era in ritardo, avevo iniziato io a condurre la visita per mostrare l’edificio e parlare del progetto, alla presenza del direttore operativo dell’impresa, del potenziale capocantiere e di un paio di altri personaggi. Dopo pochi minuti il capocantiere mi ha interrotta per farmi questa domanda: “Senti, ma quanti anni ha il tuo capo?”.
Potete immaginare con quale traballante sicurezza in me stessa io stessi affrontando per la prima volta e da sola quell’esperienza: rendermi conto della considerazione che questa persona aveva per me è stata una doccia fredda e mi ha chiarito subito come avrebbero potuto essere da allora in poi le mie esperienze di cantiere. Non so come io abbia avuto la prontezza di rispondere “Non si preoccupi, e si figuri che lo strutturista ha tutti i capelli bianchi”. Si sarebbe preso la stessa libertà con un uomo, altrettanto giovane? Può darsi, ma sono abbastanza convinta di no.
04_Sopralluoghi in cantiere: velate minacce
Il cantiere non è (ancora) un paese per donne. Mi è capitato di sentire colleghe affermare il contrario, di non aver mai avuto problemi o – addirittura – che le donne in cantiere siano più temute degli uomini. L’unica spiegazione che mi do è che si riferissero a cantieri di ristrutturazione di interni, mondo nel quale la presenza delle donne è consolidata da più tempo, o che si riferissero ad imprese o singoli artigiani con i quale avessero già instaurato un rapporto di conoscenza e fiducia reciproca. Nei cantieri più grandi le cose vanno diversamente. Si fa FATICA.
A partire dalle risatine e dalle battute dietro le spalle: metti per esempio che ti devi piegare per prendere delle misure, per citare una situazione che sembra portare chi ti guarda ad una regressione alle scuole medie, o metti che quando ci sei tu che giri in cantiere ci sia sempre quel tal operaio che si fa trovare con la patta aperta e in mostra a fare la pipì in giro. E ho ben presente anche la battaglia per farsi ascoltare – o meglio per non farsi “parlare sopra” – durante le riunioni di cantiere: è quindi un atteggiamento trasversale, che va dall’operaio al responsabile dell’impresa. È necessario dimostrare il doppio degli altri per superare la fase in cui si viene trattate con condiscendenza e divertimento. Non dico che sia sempre così, per fortuna: ma le situazioni di cui sopra mi sono successe diverse volte.
La peggiore mi è capitata in un mese di agosto. Avevo il compito di verificare le condizioni in cui veniva lasciato un cantiere – composto da due edifici – prima dello stop estivo e mi ero quindi presentata da sola, chiedendo che qualcuno fosse presente per farmi entrare e per seguire mie eventuali indicazioni. Erano stati mandati due operai visivamente poco entusiasti della cosa. Mentre facevo il mio giro di verifiche, compilando una lista di attività da completare, ho iniziato a sentirmi osservata: posizionati dove non potevo vederli, iniziarono a dire ad alta voce, perché potessi però sentirli, “ma è ancora qui questa”, “ma che cazzo vuole”, “ma quando te ne vai”. Vi assicuro che in una città già deserta, chiusa in un cantiere con due tizi ostili, ci vuole sangue freddo per convincersi che sia solo uno stupido scherzo e portare a termine il proprio lavoro.
05_Il tuo capo che ti chiede quando farai un figlio
Non mi è mai capitato che questa domanda mi venisse posta durante un colloquio di lavoro, ma ho avuto un capo che la utilizzava come argomento di conversazione durante i momenti di “festa” aziendale: tagli della torta per compleanni, aperitivi per festeggiare i momenti lavorativi positivi… L’approccio festoso non rendeva la domanda meno scomoda, oltre che indiscreta. “Uè, ma allora lei quand’è che lo fa un bambino? Non è ora?”. L’ho sentito rivolgersi così a me e a varie colleghe, ma l’interessamento paternalistico alla nostra maternità strideva con certi comportamenti tenuti con colleghe che poi sto bambino avevano deciso di farlo veramente. Le difficoltà del rientro al lavoro dopo la maternità nell’ambiente degli studi di architettura / ingegneria merita un post dedicato, che ho in mente di scrivere presto.
06_Perdere un lavoro: il dubbio che sia successo perché sei una donna
Un giorno la società per cui lavoravo è stata estromessa da un progetto che seguivamo ormai da qualche mese. C’erano stati dei momenti di tensione e una sensazione generale di feeling e fiducia non scoccati con i clienti. L’avevo provato soprattutto sulla mia pelle perché, durante le presentazioni fatte di fronte ai clienti e ad alcuni loro collaboratori e dipendenti, mi era capitato di sentirmi sottovalutata e considerata con condiscendenza. Sono tutt’ora convinta che il fatto di essere una donna avesse molto a che fare con il loro atteggiamento. Era solo un’idea nella mia testa? Credo di aver raggiunto ormai una certa consapevolezza e so rendermi conto di quando sono paranoica e di quando non mi sbaglio. Ecco, in quel caso non mi sbagliavo. Forse la mia presenza non è stata l’unica ragione per cui quel lavoro non abbia avuto seguito, ma certamente ha contribuito alla situazione che ha portato alla fine della collaborazione. La cosa più triste è che la figlia di uno dei clienti era proprio una laureanda in architettura: le auguro di avere a che fare con clienti migliori.
07_Le riunioni col Cliente: il caso del biglietto da visita
Questo è l’episodio che mi ha fatta sentire più umiliata. Può sembrare una cosa da nulla, una banalità, ma rende evidente che c’è ancora chi dà per scontato che l’unica donna presente ad una riunione sia lì per scrivere il verbale o per assicurarsi che tutti abbiano acqua e caffè.
Andiamo ad una riunione con un nostro cliente che vuole presentarci un consulente con il quale dovremo avere a che fare per tutto il progetto. Siamo così schierati: cliente e consulente da un lato del tavolo, dall’altro lato il mio capo, due colleghi uomini, io. Il consulente si presenta ed estrae i biglietti da visita: ne dà uno al mio capo, uno al collega A, uno al collega B, e stop. Resto così basita che probabilmente ho persino già teso il braccio per prendere quel cavolo di bigliettino.
Vorrei dirvi di avere avuto la risposta pronta, ma purtroppo quella volta non è andata così. Magari due giorni dopo, rimuginandoci sotto la doccia, eccola la risposta perfetta: “Conviene che dia un biglietto anche a me, se vuole che almeno uno non vada perso”. Ma sul momento no, niente: anche a reagire si impara solo con il tempo.
L’incongruenza maggiore stava nel fatto che quella più sul pezzo in merito al progetto ero io, e non perché sono più brava degli altri, ma perché ero la progettista operativa, mentre i colleghi ricoprivano altri ruoli. Durante la riunione quindi è a me che tocca parlare degli aspetti progettuali e, dovendo rivolgersi a me, lo fa solo per nome, che ha sentito dai miei colleghi, mentre si rivolge a loro con tutti i dovuti riguardi per persone che sta incontrando per la prima volta per lavoro. Io penso solo che vorrei ribaltare il tavolo con tutto quello che c’è sopra, ma mantengo un tono corretto, ricordandogli solo come mi chiamo di cognome, casomai non lo avesse colto.
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Vorrei scrivere delle conclusioni, ma le lascio trarre direttamente a voi. Aggiungo solo che, fra gli episodi citati, ho volutamente escluso quelli con le solite, inopportune, avances sul lavoro perché – ahimè – è un capitolo tristemente e notoriamente scontato.
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Ciao, io come giovane architetto ti posso dire che la considerazione in cantiere è sempre poca e che un po’ di nonnismo iniziale è quasi scontato, per guadagnarsi il rispetto serve tempo.
Gli operai fanno questo mestiere da 20 anni, e credono che qualunque cosa tu voglia insegnarli sia sbagliata. Io li riempio sempre di disegni e spiegazioni e che ascoltino o meno me ne frego, poi però quando sbagliano e mi vedono seriamente incazzato, rifanno il lavoro e da li iniziano solitamente ad ascoltare.
Nemmeno io vengo spesso chiamato architetto dai costruttori che frequentano lo studio, se hanno passato i 50 anni poi, è già tanto che sappiano il mio nome, il più rispettoso parla di me agli altri come “il geometra che lavora da..”.
L’abito fa il monaco: i primi lavori mi vestivo in maniera più casual ed ero molto poco formale, inutile dire che si prendessero tutti estrema confidenza, ed al primo errore pronti a sparare col bazooka. Ad oggi tengo la dovuta distanza e mi presento ai clienti ed in cantiere rigorosamente in camicia, giacca pantalone da completo e scarpa elegante (salvo quando serve l’antinfortunistica), l’atteggiamento è cambiato, ed a volte mi danno anche 5/6 anni in più di quanti non ne abbia.
Poi l’edilizia è sicuramente un mondo rozzo e maschilista, ma credo lo sia più per tradizione culturale, io non posso escludere che tu abbia subito “discriminazioni sessuali”, ma credo anche che sia nostro compito (di noi giovani) capire e comprendere come relazionarci con persone di oltre 50 anni, di scarsa cultura e che non hanno avuto le nostre opportunità formative.
Se invece a discriminarti fosse un tuo collega coetaneo, prendi atto che l’ignoranza dilaga anche oggi e non credo sia io a doverti dare consigli su come demolirlo, se tieni in piedi il sito, la verve non ti manca di certo!
Posso sottoscrivere: sono negli interni e in effetti ho anche dei rapporti buoni con i fornitori, ma questo non ha fatto mancare degli episodi seppur sporadici simili ai tuoi. Un abbraccio